Senza titolo e senza un perché.

DISCLAIMER: articolo puramente personale, con picchi di orgoglio materno e fasi di ironia per mascherarlo. E anche sprazzi di ubriachezza dopo i matti festeggiamenti per avere di nuovo casa riordinata e pulita e tre quarti delle lavatrici in meno da fare.

Da genitori, spesso, non è facile fare un passo indietro. Accettare che la vita di tuo figlio è solo sua e che arriva un momento in cui le sue scelte potrebbero non essere quelle che tu avevi immaginato per lui. E magari pensi pure che sbaglia e se ne pentirà.

Eppure è proprio così. La vita è solo sua.

E se il mio ha deciso di non studiare quello che io mi aspettavo e nemmeno quello che avrebbe mai voluto suo padre o i suoi nonni, se ha deciso di lavorare anche se non aveva bisogno di rendersi autonomo economicamente, se ha deciso che la scuola che ha sopportato negli ultimi anni va “redenta” con un percorso di nuovi studi, che lo facciano più felice di quanto la filosofia, la chimica o la matematica lo abbiano mai fatto… lo devo accettare. Non sono sicura di averlo ancora fatto del tutto.

Da quando lavora gli è tornata la voglia di studiare, Gastronomia, non veterinaria come ci aspettavamo. E sogna. Sogna ancora. Sogna un futuro in qualche importante cucina e una stella Michelin magari. Sogni che mirano in alto, ma non è questa l’età per mirare?

Da quando lavora, esce e arriva in servizio mezz’ora prima di ogni turno, anche se fa 9 ore.

Da quando lavora torna a casa con un sorriso da un’orecchia all’altra, cosa che non è mai successa nell’ultimo anno di scuola, nonostante abbia avuto momenti decisamente divertenti con gli amici e anche con alcuni professori.

Vedo di nuovo quella scintilla nei suoi occhi. La vedo soprattutto ora che le diverse proposte di lavoro lo hanno costretto a fare scelte importanti, per un 19enne. Il fatto che la sua professionalità e il suo sacrificio siano riconosciuti ( e non con un voto sul registro virtuale) lo aiutano quotidianamente a costruirsi un’identità.

E lui ha voglia di imparare, ha quella sete di conoscenza e di esperienza che avrei voluto tanto vedere in altri settori.

MA è felice. E io non posso fare altro che essere felice per lui. Se non sarà la sua strada, se si accorgerà di aver sbagliato, almeno non potremo rimproverarci di non averlo sostenuto mentre provava a realizzare i suoi sogni. Anche perché, con grande orgoglio, lo sta facendo con i suoi mezzi.

Quindi ora è il tempo di nuove esperienze, mettere nel proprio bagaglio un po’ di cose da portarsi dietro ad ogni tappa. Si parte con la classica esperienza di stagione lavorativa in montagna.

Spero che viva questa come un’opportunità ma anche con la leggerezza di chi sa cogliere sempre i lati positivi. Essere fuori casa è un momento importante: diversa da una vacanza studio, scelta da lui per lavorare e scelto da loro tra più di 100 curriculum per l’interesse con cui pare si sia presentato.

Non descrivo le mille preoccupazioni che ci passano per la testa, ma gli auguro di imparare tanto (oltre che a fare i pomodorini confit, anche a tenere in ordine la camera, e magari a guidare in montagna).

Gli auguriamo che l’entusiamo lo stravolga, tanto da non fargli pesare la fatica e la lontananza dagli affetti. Che quell’entusiasmo gli faccia venire voglia di approfondire, scavare, studiare e capire.

Figlio…Contieni le cazzate per cortesia, e cerca di perdere un po’ di bimbominkismo. Sii felice, come in questi ultimi giorni, quello già si vedeva.

Wyoming II

Pensieri Sparsi… di frontiera e di cavalli.

Gli Stati Uniti hanno la presunzione di essere diversi dagli altri. Di essere un punto di arrivo della storia, che può fare a meno del passato. (Stanley Hauerwas)

In più di un’occasione, scrittori e critici Europei fanno riferimento al fatto che gli Stati uniti sembrano “non avere storia”. Non è affatto vero.

Tutto ha una storia.

Le fonti che la costruiscono possono essere più o meno esplicite, artistiche o scritte ma di fatto, l’America ha una storia, vecchia quanto la nostra.

La storia di cui hanno tracce è talmente valorizzata da renderla quasi paradossale.

Facendo questa considerazione penso soprattutto al culto dell’antiquariato che ho rilevato in questi paesi. Ho imparato che anche un paio di vecchie scarpe pescate da un torrente, con il giusto contesto e una storia da raccontare, diventano incredibilmente affascinanti.

Hulett
Alladin
Alladin
Alladin. Distributore di benzina

La frontiera c’è ancora. E non parlo della frontiera che divideva il mondo civile dai selvaggi, ma di quello spirito che univa le carovane alla ricerca del sogno di una nuova vita, le spingeva ad andare avanti in condizioni veramente proibitive. La voglia di scoprire, di sperimentare, di domare la natura fino ad essere una parte attiva del proprio mondo, quello è ancora tutto lì. La frontiera si vede in queste vittorie e sconfitte nella continua battaglia uomo-natura. Pare che durante l’inverno, quest’ultima, abbia la meglio, ma l’uomo, grazie alla tecnologia frutto del suo ingegno, non è più in una battaglia impari.

Old trail town, Cody
School Old trail town Cody
Old trail town Cody

I cavalli sono un mezzo di trasporto (ancora oggi, certo), un bene primario. amici inseparabili, la principale attività e strumento del lavoro dei ranch.

Cavalli all’abbeverata
Raduniamo i cavalli con il quad

Per noi, che stiamo ore a fare doccia, toletta, sgrovigliante, grasso agli zoccoli al nostro cavallo, un branco di 50 cavalli lasciati liberi su una immensa collina, tutti insieme, è una cosa impensabile. Eppure nessuno di quei cavalli aveva un graffio, un piede gonfio, una fiaccatura sul garrese o ragadi al sottopancia. Prima di ogni uscita venivano controllate le sellature, lo spessore dei sottosella e i morsi. Non solo per la sicurezza delle persone, ma anche per il benessere dei cavalli. Qui non si fanno l’oretta di passeggiata sull’argine. Qui si parla di 3 o 4 ore al mattino e almeno un paio al pomeriggio. E quando ci sono i vitelli da spostare il lavoro potrebbe essere senza interruzioni in scuderia.

I cavalli che non vengono usati, tornano al pascolo

Sono bestiole domate a passeggiate su passeggiate, km su km, con cowboys sapienti e poi clienti inesperti di tutti i livelli. Sopportano tutto, anche la fifona di turno, cioè la sottoscritta, che si guarda continuamente intorno per paura di cadere, che il cavallo inciampi su un sasso, o che perda l’appoggio su quel ripido pendio che sembra un dirupo (e su cui Ferdi tornava sempre a vedere che io non fossi morta dalla paura). Ma se ti fai capire decentemente, sanno rispondere bene e difficilmente ti metteranno in pericolo.

Eppure il cavallo magicamente scompare davanti a una mandria di vitelli da radunare o muovere. Insomma, se l’obiettivo non è lo stesso cavallo, ovviamente l’attenzione si sposta. C’è un lavoro da fare. Non esiste più il “dove si passa?”, ” dove andiamo?”, ” ce la farà?” “sarà pericoloso?” (e nel mio caso “c’è una discesa?”) Ma tutta l’attenzione si concentra sul bestiame: evitare che si creino buchi nel treno dei vitelli, che permetterebbero a qualcuno di essi di tornare indietro o scappare dal gruppo, sparpagliarsi o prendere direzioni non controllabili. Per questo è importante coordinarsi e distribuirsi bene intorno alla mandria, ascoltando bene le indicazioni di chi guida. E soprattutto non correre che i vitelli si spaventano!

Quando scendi da cavallo dopo un lavoro così, ti accorgi di aver provato una gamma infinita di emozioni: dalla soddisfazione, alla gioia, alla fatica e alla preoccupazione. L’adrenalina che gira in corpo ti fa sentire dolente ogni singolo muscolo.

La frontiera diviene quasi una metafora della vita quotidiana. La scoperta, la conquista, la fatica, la felicità, le difficoltà, le eventuali cadute, l’appoggio di chi ti è vicino, la condivisione, il lavoro duro…c’è ogni singolo ingrediente di un romanzo di frontiera della migliore letteratura americana. La vita di ognuno di noi in fondo è una piccola frontiera quotidiana. E ogni giorno ci comportiamo da cowboys o pionieri che la affrontano con speranza, paura, entusiasmo, coraggio. Concreti, semplici, aperti.

Wyoming.

Pensieri sparsi e scritti a getto. Parte 1

Chi pensa all’America “di Frontiera” immagina inevitabilmente grandi spazi, immense praterie, foreste a perdita d’occhio. Beh, non è un mito senza fondamento. Grandi cieli blu, colline di tutte le gradazioni del verde, pascoli dall’erba medica gialla, profumatissima.

Vista dalla panoramica di Shell Falls

L’occhio non riesce ad individuare la fine di un pascolo. Ma sembra che per degli strani buchi spazio-temporali, quando inizi ad attraversare la prateria infinita, improvvisamente ti ritrovi in un bosco o sul ripido pendio una collina.

Questa è una cosa che ha conseguenze nella vita quotidiana. Non puoi certo dire “faccio un salto a prendere una pizza”. Al wallmart più vicino ci si va con il frigo perchè è a più di due ore. Per la strada incontri poche macchine, e nelle stazioni di servizio, oltre a generi di tutti i tipi, puoi sempre trovare una piccola sezione di oggetti di antiquariato o di uso quotidiano.

Spostiamo i vitelli al pascolo winter
Devil’s Tower, con noi per tutto il soggiorno.

Il nostro amico Chase, cowboy eccezionale ma anche persona dalle mille capacità, una sera uscì per comprare una bottiglia di whisky al Rodeo Cafè e tornò quasi un’ora e mezzo dopo, quando stavamo dandolo per disperso.

Ma questa cosa rende tutti più rilassati nella gestione del tempo e delle relazioni. Ci vuole tempo per muoversi, tempo per incontrare qualcuno e quando lo si fa, è un buon motivo per chiacchierare. Saranno anche abituati ai turisti, onestamente non l’ho capito; quello che ho percepito è una notevole voglia di scambiare due parole con le persone, che sia al bancone di un bar, alla pompa di benzina, in un parcheggio. Il bancone di un bar è un luogo di socializzazione, non di mero consumo.

Ponderosa Cafè, Hulett

Questo è stato il viaggio della nostra vita; partito nella testa ancora 4 anni fa, quando abbiamo conosciuto Claudio e Paola che ci raccontavano come due loro amici emiliani, lasciarono le loro case in Italia per aprire questo ranch in Wyoming. “Che bello sarebbe andarci insieme”. Loro ci erano già stati e i racconti non facevano altro che alimentare la voglia di essere in quei posti magnifici.

Quindi tutto è partito grazie a un’amicizia. Straordinariamente è anche una delle cose più belle che mi porto a casa da questo viaggio. Averlo trascorso con degli amici, cosa bellissima. Ma anche aver conosciuto due persone che hanno condiviso questo progetto per più di trent’anni senza mai un litigio, valorizzando concretamente le rispettive peculiarità. E l’ho sentito e visto più volte in quei giorni, nell’atmosfera del Lake ranch. Forse loro hanno saputo davvero cogliere le cose più positive di quella “easiness” della vita country americana.

Cartelli lake ranch
Lake ranch

Lake ranch saloon

In merito ai Cowboys è tutto vero. Lo stereotipo dell’uomo sempre a cavallo forse è un po’ esagerato. Quelli che ho conosciuto io sapevano spezzarsi la schiena su un cavallo da preparare al lavoro o dentro un garage con i mezzi per la campagna, ma nello stesso tempo sapevano accorgersi se eri in difficoltà e avvicinarsi a controllare e supportarti in qualche modo. Certo, sanno anche ammazzare serpenti a sonagli a sassate, cucirsi le chaps, suonare la chitarra, addestrare un agnellino insieme ai pitt bull, usare “damn” e “fucking” ogni tre parole, ma soprattutto ricordiamo che ” a real cowboy drinks bad whisky” (cit Chase). Ho conosciuto anche una cowgirl tedesca che sa scuioiare un serpente e che nella borraccia porta uno stomachevole liquore alla cannella del quale va orgogliosissima e che fa assaggiare a tutti. Io li ho adorati e li porterò con me per il resto della vita. Anche in queste foto.

Le chaps di Chase, decorate da lui.
Scott, liberty e l’agnellino orfanello.
Cordula, a real cowgirl (foto inviatami da qualche compagno di avventura).

Ho imparato che pulmino con a bordo 11 persone, due delle quali dirette a prendere un volo di rientro, si può rompere ed essere trascinato da un pick up presso una cittadina di campagna, che nemmeno il più fantasioso film dei fratelli Cohen potrebbe descrivere. Ho imparato altresì che questa cosa, che per me sarebbe stata una tragedia, non si risolve se ci si incazza, quindi meglio prenderla con ironia. Questo mood sembra superficialità, ma voglio fissarla bene nella mia testa. Proprio oggi a un corso di aggiornamento mi hanno ricordato che la responsabilità di come reagiamo a un messaggio o situazione è nostra. Si può anche decidere di essere più leggeri, a volte.

La giornata è finita per essere uno dei momenti di shopping più sfrenato che io ricordi.

Ferdi sotto il pulmino

Mi sono rassegnata al fatto che verdure e pesce fossero merce rara, tuttavia ho imparato che una colazione da Granny’s (a Cody, la mia città preferita) ti tiene in piedi anche 12 ore di fila e che il caffè americano, tanto snobbato da noi italiani, dopo le prime tre dosi mal tollerate, diventa magicamente una droga.

Sempre nella bellissima Cody ho potuto assistere a uno degli eventi più caratteristici di questi stati del west, il Rodeo.

Ecco, il Rodeo, in alcune delle discipline che presenta, è la manifestazione più alta della follia dell’uomo ( Broncos, bull riding). Mentre diviene la dimostrazione del suo incredibile senso pratico in altre discipline (roping, team roping). Vedere un cowboy sbalzato e rincorso da un toro e poi vederne un altro che con una semplice corda riesce a catturare un vitello in corsa, fa pensare che gli uomini siano davvero creature strane, dalle più disparate specie.

Continua…..

Una serata con i Giona

Quando, quest’estate, ho conosciuto Sofia, non avevo idea di chi fossero i Giona. E purtroppo, la mia, era una grave ignoranza, dato che la famiglia di cui vi parlerò (poco, perchè le foto parlano da sole) è originaria del Polesine e qui, a Castelguglielmo, ha la sua base da molti anni.

Dallo spettacolo “Tribù”

Sofia collaborava con questo Team per la realizzazione dello spettacolo “Tribù”, che ho scoperto essere molto atteso nel settore equestre. Ho imparato che i Giona sono conosciuti in tutta Europa per il livello altissimo del loro lavoro. Non si tratta solo di volteggio, e nemmeno di arte circense.

Ciò che ho visto va ben al di là di queste discipline. La presentazione iniziale ha illustrato come tutta l’arte dei Giona sia nata dall’amore per i cavalli, dallo studio della relazione e della comunicazione e dai viaggi continui di formazione fatti dalla famiglia per migliorare le tecniche di addestramento. Quello a cui ho assistito è una sorta di testimonianza della fiducia che i Giona riescono ad ottenere dai loro cavalli.

Dallo spettacolo “Tribù”

Infatti è solo la fiducia che permette a tanti animali di lavorare insieme solo sulla base di comandi vocali. Solo il duro lavoro e la costanza avranno sicuramente permesso che questi animali, paurosi per natura, potessero lavorare con il fuoco, con ostacoli e a notevoli velocità. Il livello di difficoltà di ciò che viene presentato è davvero alto.

Ma credo che per questa famiglia ci sia qualcosa di speciale: il fatto di lavorare tutti insieme allo stesso obiettivo, esaltando le capacità e le propensioni di ogni membro, ha reso lo spettacolo un’ espressione artistica che cattura, emoziona e coinvolge.

Ad ogni singolo passaggio dei cavalli davanti alla mia postazione, indipendentemente dal filo narrativo che onestamente ho già dimenticato, mi ritrovavo a bocca aperta e con la macchina fotografica incollata alla faccia cercando di rendere la stessa emozione.

Grazie dunque ai miei amici del 555, che mi hanno fatto conoscere questa straordinaria famiglia, che spero di rivedere in futuro con nuove evoluzioni.

Finalmente un viaggio tra le pagine.

 

 

 

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“Sopra le trincee Dio era scoppiato come un pallone, e di lui non era rimasto altro che frammenti piccoli e sporchi di ipocrisia. La religione era soltanto un bastone per picchiare i soldati, e chiunque affermasse il contrario si riempiva la bocca con sciocchezze bigotte”

 

Si chiama L’ASSASINO CIECO ed è un libro di Margaret Atwood, una scrittrice Canadese, molto conosciuta in ambito letterario per il suo descrivere con ironia temi come la politica, l’ambientalismo e il ruolo della donna. Scrittrice di poesie e romanzi molto particolari.

Spendo davvero qualche parola per consigliare in particolare questo libro, pur non essendo a tema fotografico contiene delle immagini davvero evocative.

Onestamente ho ripreso a leggere con un certo gusto solo da quando il kindle mi ha permesso di farlo con comodità ovunque, ma questo è un libro che voglio avere tra le mani e tenere in libreria.

Si legge con curiosità: le recensioni parlano di più livelli narrativi che si intrecciano. In effetti è così e ci si mette qualche capitolo a orientarsi poiché chi scrive e chi parla non corrispondono e non è così immediato comprendere in quale storia ci si trova. Dopo i primi capitoli si finisce però risucchiati in un atmosfera sospesa nella storia, anche se della storia che scorre si parla, e contemporaneamente in un futuro di fantascienza. Mi ricorda un po’ una specie di Macondo in versione canadese, attraverso il ‘900 dove però tutto passa attraverso una visione e più di una narrazione più squisitamente femminile di quella di Marquèz.

Ultimamente sono una lettrice insoddisfatta. Trovo buone idee scritte malissimo, romanzi scopiazzature di riusciti autori di avventura, riusciti autori di avventura che non riescono a fermare una produzione ormai brutta copia di se stessa. Forse sono invecchiata o sono solo diventata più esigente o forse sono stanca di tutti quei romanzetti alla CSI, Wilbur Smith o Ken Follet. Non mi è capitato davvero di emozionarmi cos’, di recente, per un libro.

La scrittura della Atwood, anche per me che sono semplicemente una lettrice, risulta chiara, ricca (che è quello che in genere mi piace) e molto evocativa.

Insomma, mettetelo nella vostra wish list di lettura.

 

Vita di Paese

Da circa 5 anni vivo in un piccolo paese poco lontano dal centro di Rovigo.

Quando ci siamo trasferiti qui l’intenzione era, come per tanti altri, di trovare una casa più a buon mercato che in città e spostarsi in centro per i servizi principali e le esigenze quotidiane.

Abituata al paese che avevo lasciato qualche anno prima, dove avevo abitato con i miei, sapevo che le frazioni avevano ben poco da offrire ed era già tanto trovare un bar e un piccolo negozio di alimentari.

Ho dovuto davvero ricredermi, proprio in generale, sulla vita di paese.

Probabilmente sono stata molto fortunata e sono capitata in un centro la cui storia ha radici molto lontane nel tempo e quindi i suoi abitanti sono uniti in una forma di coesione e aggregazione molto più forte di quei paesi nati invece come prolungamento della periferia cittadina o connessione tra centro e campagna, che sono ormai dei veri e propri quartieri dormitorio.

Grignano (13)

Grignano Polesine è davvero piccolo; non si raggiungono nemmeno i 4000 abitanti, credo.

Oltre a far parte di quelle zone dove, in età del Bronzo, si lavorava l’Ambra, famosa è l’origine della “COMUNA” della quale, in paese, si va molto fieri.

Il pavajon

I possedimenti agricoli, nel primo medioevo, bonificati dai monaci benedettini di Pomposa con l’aiuto degli abitanti della zona, vennero concessi in gestione (detto Enfiteusi) alle famiglie del posto in cambio di alcuni pagamenti in natura. Questo tipo di assegnazione, nonostante vicende alterne durante i secoli, è rimasto tutt’ora. Le terre intorno al paese sono infatti amministrate da un gruppo di famiglie che rappresenta appunto quegli abitanti medievali che per poco più di un affitto, ottennero dai monaci la “gestione” del paese. I terreni vengono tutt’ora riassegnati ogni cinque anni tra gli aventi diritto dei discendenti di quelle antiche famiglie, con una cerimonia al Pavaion, monumento rappresentante la piazza commerciale del paese, e molti festeggiamenti.

Il Pavajon

Dettagli

Dettagli

Non sono cresciuta in un paese ma ricordo davvero con grande emozione cosa significhi crescere in un piccolo quartiere, dove si poteva giocare sulla strada, girare in bici, fidarsi dei vicini, darsi appuntamento al parco nelle calde giornate d’estate. Abbiamo trovato tutto questo, per la nostra famiglia. Senza saperlo, e per motivi ben diversi dal cambio della residenza, ho anche inserito mio figlio nella scuola di paese, trovando grande coesione tra le insegnanti, ottimi progetti e una sensibilità che non avevamo trovato prima.

Adigetto

Campagne della Comuna

Ci vivo bene e quando torno a casa non ho più molta voglia di andre a far la spesa nel grande centro commerciale vicino, se posso trovare quello che cerco nel piccolo supermercato vicino al parco. Nè ci tengo a fare i canonici due passi in piazza se nell’arco di 4 km il mio paesaggio comprende bei monumenti, i servizi principali, la campagna più silenziosa e la piazza…Sì, una piccola piazza, dove i bambini possono disegnare con i gessetti sull’asfalto del sagrato, dove un piccolo cinema locale organizzato dalla parrocchia (che non frequento, ma che stimo molto), raccoglie i ragazzini nelle fredde domeniche d’inverno.Nebbia al parco

La nostra vita, che vedevo proiettata in macchina costantemente su e giù per via giotto (che connette il paese al centro) si è legata alla piccola frazione, alle sue persone e finalmente mi sento a casa, come non mi sentivo davvero da tanti anni.

E allora mi toccherà girare in calesse!

“Visto che ci sei, esci in calesse o prendi il tuo velocipede, aziona il tuo grammofono e telegrafa a tua madre!” Mi prende in giro mio marito da quando ho fatto una scelta molto vintage nell’ambito della fotografia.

Da tanti, troppi mesi, non trovavo nulla che mi entusiasmasse in questo settore. Qualche libro, certo, qualche bella raccolta di scatti, ma davvero cominciavo ad essere veramente intollerante alle “vetrine fotografiche” in cui si erano trasformati siti, gruppi Facebook, associazioni di fotografia, alcuni professionisti e altrettanti “aspiranti tali”.

Che c’è che non va? La condivisione, il confronto, sono sempre stati il punto forte della mia ricerca, in qualunque settore mi interessasse. Perché ora li schifavo?

Dopo tanto tempo che non andavo al fotoclub, con una gran voglia di vedere i miei amici, mi ammosciavo dopo essere cascata proprio nella serata “giro fotofile” dove una vetrina interminabile di foto, alcune anche di un certo livello, sembravano scaldare gli animi più di un punch in una giornata d’inverno.

Che ho che non va? In fin dei conti, è questo che faccio. Prendo la macchina, scatto e faccio vedere le mie foto. Probabilmente è ciò che farò ancora. Cos’è che mi annoioa, che mi fa sentire appiattita in mezzo a un mondo stracolmo di immagini, e non tutte necessariamente brutte, che mi fa passare la voglia di prendere la macchina fotografica e farmi ore fuori con il peso e la fatica che si sentono solo quando si torna a casa?

 

Non ho terminato di esplorare le vie del digitale, sono anzi molto ignorante. La storia della fotografia, nonostante l’infarinatura generale, mi riserva ancora molte sorprese e tempi da approfondire.

E dell’analogico che vogliamo dire?

Nell’epoca degli “scatti a raffica” o come diceva qualcuno a fine ‘800, nel periodo in cui siamo un po’ tutti “schiacciabottoni” (si, nell’800 c’erano un sacco di “fotografi della domenica”), prendere in mano la vecchia F1 di mio padre è in effetti come fare un giro in calesse mentre tutti stanno sul SUV.

O forse…. Forse è come ascoltare un vinile e alzarsi per cambiargli lato.

Chi meglio di Alessandro Cattaneo, amico e grandissimo conoscitore del settore musicale, collezionista di primo grado ed esperto di … tutto, può aiutarmi a capire se veramente ciò che stiamo facendo è “tornare indietro”?

 

Foto Alessandro Cattaneo
Foto Alessandro Cattaneo

Lo stresso grazie a Fb e mi risponde con disponibilità e pazienza. Fondamentalmente gli chiedo “perché il vinile?”

 

Perché il vinile? Perché hai un oggetto “materiale” in mano; di alta qualità e con tutte le informazioni che di solito un vero appassionato richiede (musicisti, testi, produzione, etc….). Il tutto generalmente in grande formato per cui leggibile…… (cosa non trascurabile). Credo che il paragone possa essere riportato un po’ alle macchine fotografiche, una piccolina può essere un mp3, fai le foto “ricordo”, ti accontenti e basta. Una macchina digitale seria è come un file in alta definizione, ti da il meglio (se la sai usare). Una vecchia macchina fotografica con il rullino è come il vinile, se poi ti sviluppi e stampi le foto ti permette di veder nascere ciò che hai creato e la soddisfazione è massima.

Rifletto sul fatto che giusto pochi giorni prima ho comprato un hard disk nuovo per accatastare tutti i jpeg che ho accumulato negli ultimi anni. Il 500giga è stracolmo. Ma cos’ho stampato? Nulla. Non avevo neanche la stampante fino a un mese fa. In mano non ho mai nulla. Non ho idea di come sia la qualità di quello che faccio, poichè solo il monitor mi dà retta.

E in effetti, come ho potuto capire in seguito, avere in mano una stampa bianco e nero è qualcosa che va davvero molto oltre all’idea di aver fatto un buon servizio digitale. Se si tratta di un buon bianco e nero l’immagine è viva. E’ tridimensionale. E l’interazione non avviene solo attraverso la vista, ma anche attraverso il tatto. Si ha quasi la percezione che in qualche modo il colore “distragga” dalla vera forma di ciò che hai fotografato, che il momento anche più banale sia ritratto nella sua vera sostanza.

Intuisco che sarà uno strumento emotivo potente con cui giocherellare.

 

Continuo con le mie domande da psicopatica e Ale aggiunge

Il vinile poi è anche ritualità (così come la foto in B/N la devi sviluppare e stampare e richiede tempo): il disco va tolto dalla bustina protettiva, il vinile estratto con attenzione, posato sul piatto, pulito, la testina deve scendere al punto giusto e dopo circa 20 minuti bisogna alzarsi dalla poltrona per cambiare lato….. Un archivio di files digitali lo puoi mettere anche random e lasciare andare per tutto il giorno, magari mentre sei al pc (come sto facendo ora) o fai altre cose. Il vinile richiede “attenzione” ed anche “amore” (visto che può rovinarsi).

il vinile è anche “bello”. Un file digitale non può avere fascino.

Cosa intendi per “Bello”?

Intendo proprio bello. E’ un oggetto che in alcuni casi è quasi un’opera d’arte; basti pensare a dischi con copertine disegnate da pittori o fumettisti famosi (Warhol su tutti, ma ad esempio qui in italia le copertine de Le Orme – Felona e Sorona e Uomo di pezza; oppure quella dei Garybaldi disegnata da Crepax. Bello perché quando prendi in mano un disco in vinile trasmette qualcosa di piacevole, trasmette comunque sensazioni (come una foto d’altra parte)

 

Mi rendo conto che in fondo non sono così psicopatica, anzi che forse sono sulla buona strada. Sebbene già avessi usato il rullino, sono passata troppo in fretta al digitale, senza esplorare le strade del “slow thinking” fotografico che può offrire l’analogico. Forse è giunto il momento di uscire dal loop del scattare a tutti costi immagini che parlino e avere esaurito le cose da dire.

Come il vinile, anche le immagini hanno bisogno di una “cura” alla quale ci siamo disabituati.

Forse è il momento di prendere in mano le foto ancora prima di scattarle. Quello che mi manca probabilmente è l’impegnarmi in qualcosa di vero, qualcosa che faccia delle mie foto un’espressione unica, per quanto alle prime armi e per quanto incapace sarò.

 

Riflettendoci mi rendo però tristemente conto che la mia cultura di camera oscura si limita al “arrrrrrghhhhh attenta a non aprire la porta” di mio padre quando ero piccola e al “nooooo le pinze dello sviluppo non nel fissaggiooooo” del fotoclub. Qualche nozione su come si faccia una provinatura, ma niente altro.

Devo ripartire da zero.

Per fortuna i fili che mi uniscono a strade di altre persone non si spezzano tutti, molti sono sottili ma robusti, come dice il libro per bambini che spesso cito, e tra chi ha iniziato con me il percorso e chi ho trovato lungo la strada, ci sono ancora tante persone con cui posso camminare e che mi offrono ottime chiavi per queste nuove porte che voglio aprire.

Corso Avanzato di Fotografia Bianco e nero, Davide Rossi.  Provino di uno dei miei primi negativi scattato con sistema zonale.
Corso Avanzato di Fotografia Bianco e nero, Davide Rossi.
Provino di uno dei miei primi negativi scattato con sistema zonale.

 

Il marito che mi offre un calesse mi ha regalato un corso avanzato di bianco e nero, perché sa quanto me che per imparare ci deve essere pure qualcuno che insegna; mio padre, che imprecava quando aprivo la porta della camera oscura, ora dovrà farlo con mio figlio… e la storia si ripete.

 

PS: Grazie Alessandro!!!

Un giretto sul Mincio.

Messa da parte la mia leggendaria pigrizia ho deciso che, visto che con la corsa non c’è mai stato un buon rapporto, era il momento di indagare il grande campo delle ciclabili e delle ciclovie.

La mia pigrizia leggendaria è rimasta la stessa, ma almeno ho scoperto che dietro le due ruote esiste un mondo molto interessante e nemmeno troppo stancante. Insomma si direbbe un buon compromesso tra vita all’aria aperta, movimento, costi ridotti.

La filosofia delle piste ciclabili extraurbane dovrebbe essere quella “green” che incentiva l’eco-turismo, valorizza le proprie aree verdi e il proprio patrimonio culturale.

In rete ci sono siti che si propongono come una sorta di tripadvisord dei percorsi ciclabili e che permettono di capire molto chiaramente se un percorso “fa per noi” oppure no. Uno molto curato e serio mi è sembrato pisteciclabili.com .

Oltre a numerosi percorsi lungo la campagna veneta, che avrei intenzione di documentare prossimamente, c’è in particolare una pista che mi ha attratta subito e che ho percorso con la famiglia di recente.

PESCHIERA-BORGHETTO

Si tratta di un percorso molto attrezzato che prosegue in realtà fino a Mantova. Non è mia intenzione farne una recensione turistica, come ho già detto esistono numerosi siti che se ne occupano, tuttavia sono rimasta molto sorpresa dall’atmosfera di questi posti in generale. Molte famiglie in bici, singoli appassionati con il cronometro alla mano, turisti stranieri, vecchiette a passeggio. Insomma il pubblico è eterogeneo, la variabile in comune è soltanto la voglia di godersi un angolo di natura con uno strano mix di rispetto e spirito di conservazione.

In fin dei conti non si fa che urlare all’inquinamento, a quanto la razza umana si stia autodistruggendo…posti come questo ti ricordano che per quanto poco, c’è chi lavora per preservare il paesaggio.

La ciclabile parte da peschiera, lungo le mura della città e segue il corso del Mincio.

Il fiume attraversa una serie di sistemi di ridistribuzione idrica particolarmente pittoreschi: chiuse, cascatelle, ponti e addirittura una centrale idroelettrica con getti scenografici.

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Dopo circa 15 km si arriva a Borghetto, che non per niente si chiama così. E’ un antico borgo medievale in pieno Mincio dove sono stati restaurati mulini e passaggi sotterranei del fiume.

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Lo scorrere dell’acqua accompagna tutto il percorso, vale veramente la pena di caricare le bici sulla macchina e rilassarsi per qualche ora.

 

 

La passione e la fotografia.

Passione e fotografia sono due parole che spesso si trovano insieme nella stessa frase ma, come grammatica vuole, in base a dove si usano il significato cambia notevolmente.

“ho passione per la fotografia” “Faccio fotografia per passione” “faccio fotografie con passione”.

Ultimamente mi sono trovata spesso a decidere nei diversi contesti se portare con me l’attrezzatura pesante o se dotarmi della più leggera compattina per registrare ricordi di eventi o situazioni. In genere la macchina fotografica reflex, con lenti e attrezzi vari, la uso per progetti specifici: quando esco con un’idea e non torno fino a che non ho trovato almeno uno scatto che la rappresenti.

Ma i fatti mi dicono ancora una volta che non conta con quale mezzo si scatti. Anche con la compattina, pur arrabbiandomi per il tempo di scatto, la mancanza del mirino e della messa a fuoco, non riesco a non cercare il meglio per esprimere la particolare visione che ho anche solo del ritratto di mio figlio in vacanza, o del mio cane che corre. E se non riesco a tirare fuori qualcosa di buono, non dipende mai dal mezzo, sempre dal mio stato d’animo.

Allora la differenza la fa il fotografo? Ne sono convinta. Certo, il mezzo ha il suo peso.

Non vado certo a un concerto con la compattina a fotografare il live, senza poter impostare neanche  iso o tempo.

Se la differenza la fa il fotografo, il risultato è determinato da un insieme di fattori che vanno dall’idea che ha in testa, dall’esperienza, dalla conoscenza dei mezzi che usa, e da quel fattore che io chiamo passione: quel vedere qualcosa, quel voler far luce su qualcosa, la ricerca di qualcosa di bello nell’insieme.

Questo rende la fotografia un fatto soggettivo. E umano più che mai.

Usare la passione nella fotografia significa fare una foto perché piace, perché diverte, perché è bello.

Usare passione nella fotografia significa pensare al risultato: nonostante io lo sappia, ancora mi ritrovo una serie di immagini inutili dopo una serata di scatti. Ecco, se avessi il rullino sarei rovinata.

Usare passione nella fotografia è anche rispettare la passione degli altri. C’è chi ne fa un lavoro e ha diritto di guadagnarci onestamente, se lo fa con passione si vedrà, indipendentemente da quanto è famoso o pagato. Alcuni amatori sono convinti che in nome della passione possono fare qualunque cosa. Salire sui palchi dei concerti, passare davanti a chi scatta, spargere foto su internet senza pensare che magari i soggetti non amano vedersi spiattellati ovunque, sparaflesshare tutto e tutti. La passione a volte sconfina nell’autocelebrazione.

D’altro canto…

Usare passione nella fotografia significa ricordarsi che ogni foto è unica. La mia è la mia. Anche se nessuno me la pagherà e le faccio perché mi va. Un professionista che viene pagato non si è aggiudicato, aprendo partita iva, il diritto di espressione. Non è la monetizzazione che determina la bravura.

Tutti questi professionisti che si preoccupano della concorrenza dei poveri amatori e appassionati dovrebbero rivedere il proprio orticello, forse non sono abbastanza sicuri di sé.

Fortuna che ci sono alcuni angoli di paradiso dove ancora i professionisti insegnano e condividono senza paura. Sono grata a quelle persone che in questi anni hanno alimentato la mia passione con la loro. Che hanno dimostrato apertura e hanno riconosciuto la voglia di imparare da quella di “rubare” dei giovani dilettanti.

Usare passione nella fotografia, diciamolo, significa averne anche il tempo e il modo. Come tutte le passioni, quando una cosa ci prende, prende testa e tempo. Per me, che non sono una grande amante di photoshop (anzi non lo so proprio usare) il tempo si spreca tutto nella fase precedente allo scatto: la progettazione e la preparazione. E comunque il tempo non mi basta mai a evitare errori che poi a monitor mi sembrano tremendamente banali.

Usare passione nella fotografia è un po’ farla entrare nella tua vita quotidiana. Non far passare più un giorno senza aver fatto uno scatto mentale di qualcosa che passa davanti ai tuoi occhi. E per questo, per fortuna, non è necessario un cannone di due metri 70-1300 f2. E nemmeno grandi conoscenze tecniche. Basta applicare il principio della valigia (cit. prof.  di Biologia delle superiori): se sai dove vuoi arrivare farai presto a mettere in valigia ciò che ti serve.

Usare passione nella fotografia, per me personalmente, è anche immaginare la faccia felice di un amico quando “si vede” nei miei scatti. O quando sono riuscita a rendere giustizia a un’emozione. Si chiamano “istantanee” ma hanno poco di improvvisato le immagini. Si chiamano così perché lo scatto è un attimo.

Devo ammettere che non sempre ho usato passione nella fotografia. E non sempre ricordo la tecnica, non sempre mi metto a studiare per realizzare qualcosa che mi frulla in testa e non sempre cerco di ritagliarmi il tempo necessario.  Il percorso è ancora lungo e sento che ho ancora tanto da imparare e tanto da poter esprimere.

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Non può esistere un creazionismo.

 

Non ne faccio una questione di scelte religiose o di rifiuto di una fede.

Guardando qualsiasi fenomeno in natura, dalla riproduzione dei più microscopici esseri viventi, al corpo umano, non si può pensare veramente che tutto sia stato posto qui o si sia originato da due individui con la foglia di fico sulle parti intime, che non erano nemmeno spaventati istintivamente da un serpente, per di più parlante.

La fede è ovviamente un’altra cosa, non sono qui a metterla in discussione. Si può credere che sia Dio, Buddha, Allah o i meccanismi naturali della vita a permettere che l’evoluzione avvenga, ma come si può negare?

E quello che è peggio sembra essere che chi crede fermamente nell’evoluzione venga tacciato di essere un freddo e triste scientista.

Di recente, questa fredda e triste scientista, ha provato un’emozione così forte da commuoversi davanti a delle fredde e “tristi” rocce. Sono stata a Frasassi.

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Non so spiegare esattamente quali elementi dell’ambiente che mi sono trovata di fronte mi hanno sconvolta. Forse è stata la grandezza della grotta principale, il racconto della scoperta anche relativamente recente, forse l’idea di come gli speleologi si siano sentiti a spiare nel buio e vedere quello che ora si può vedere sapientemente illuminato.

Quei pinnacoli, goccia dopo goccia, si sono formati in centinaia di migliaia di anni. Una stalagmite cresce (in media) di circa un decimo di millimetro ogni anno, ci hanno detto. Nella grotta principale ci sono formazioni di più di 30 metri. Un campanile di una piccola chiesa.

Il loro incontrare minerali diversi o formazioni di diverse consistenze e origini ha fatto sì che si differenziassero le forme. Una goccia colata giù per una parete per milioni di anni ha dato origini a un’opera d’arte impensabile. Quasi si fossero creati dei sipari per le rocce sottostanti.

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Ma ciò che veramente sconvolge, dopo aver ammirato queste meravigliose concrezioni, è scoprire che anche in quelle acque ricche di zolfo, c’è la vita.

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Un gamberetto minuscolo si è evoluto nei laghetti sotterranei di queste grotte. Un gamberetto depigmentato, che vive al buio e in acque decisamente improponibili ai suoi cugini dei torrenti appena fuori dalle grotte. Eppure c’è. L’amministrazione delle Grotte ha allestito una vasca dalla quale esce acqua sulfurea, per mostrare questa specie ai turisti in visita.

Il Niphargus frasassianus è dunque una specie endemica delle grotte. Se lo spostiamo fuori da lì anche di poco, non sopravvive o muta.

Questo fa riflettere. Fa riflettere su come gli organismi si perfezionino in base all’ambiente. Su come il patrimonio genetico sia in continua relazione con l’ambiente, su come gli stimoli mutevoli e molteplici dell’ambiente siano fondamentali per la sopravvivenza di ciò che è pre-scritto, immutabile e composto da poche “lettere”.

E a scherzarci su, di questi tempi, fa anche ben sperare. Anche in Italia ci sono specie che sopravvivono alle più impensabili condizioni di vita. Forse qualche speranza di sopravvivere alla politica odierna ce l’abbiamo.

 

Purtroppo a Frasassi non si può scattare, nemmeno senza Flash, così le foto che ci sono in questo post sono quelle del sito delle grotte, che si possono trovare in rete.

Qui sotto alcuni scatti dei dintorni e della bellissima città di Perugia, alcuni scorci delle colline Umbro-Marchigiane e del Lago Trasimeno.

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Monorotaia che permette di arrivare al centro storico di Perugia senza uso della macchina.
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Scorci di Perugia
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Panorama da Belvedere

 

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Colline imbiancate

 

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Lago Trasimeno

 

 

 

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